Il marketing che conoscevamo era nato con l’obiettivo di vendere, ma cosa succede quando le aziende e i loro clienti non condividono più gli stessi valori? Le aziende non hanno scelta. Se il divario tra i valori di un’impresa e i suoi clienti o la società è troppo grande, l’impresa ne risentirà inevitabilmente.
Allora, cosa si può fare?
Da qui la decisione di cambiare la finalità non solo del marketing, ma più in generale delle aziende: puntare quindi sul miglioramento della qualità della vita delle persone, di dare un contributo alla felicità e al benessere della società.
Il business deve avere un chiaro scopo sociale e la condivisione dei valori tra brand e cliente è il motore di questa nuova economia. Il successo del brand activism sta proprio nella dimostrazione di un’azione concreta e tangibile per i propri utenti che punta al miglioramento di una condizione che vada al di là del profitto.
Le aziende devono prendere scelte che mirano al bene comune, attraverso piani strutturati di responsabilità sociale. Ad esempio noi, come web agency, abbiamo abbracciato i principi del web design etico per migliorare l’ecosistema internet, rendendolo più accessibile, trasparente e sicuro.
Il Brand Activism: una nuova forma di marketing
Il marketing classico incentrato sull’offerta dei prodotti e dei servizi è stato superato dal marketing fondato su valori e purpose dell’azienda.
Nella società attuale si distingue un’organizzazione di successo non perché proponga un prodotto migliore, più funzionale o più conveniente, ma perché è in grado di offrire una visione del mondo migliore. I Brand possono contribuire a definire la nostra identità e la visione del mondo in cui vogliamo vivere.
Il termine Brand Activism fa quindi riferimento alla nuova forma di marketing dove il Brand si impegna per una o più cause di rilevanza sociale, politica o economica attraverso progetti, campagne di comunicazione o iniziative volte ad un fine determinato.
Philip Kotler e Christian Sarkar sono gli autori di uno dei primi e più importanti testi della materia (Kotler, Sarkar, “Brand Activism. From purpose to action”, 2018), in cui definiscono il brand activism come “Volontà chiaramente esplicitata di partecipare a cause in ambito sociale, oltre che di assumersi precise responsabilità in merito al raggiungimento di quello che viene considerato bene comune”.
Gli stessi Kotler e Sarkar si interrogano anche sulla necessità di trovare un modo per riconoscere e premiare quelle aziende che praticano una gestione aziendale sostenibile e orientata agli stakeholder.
Brand activism e Corporate Social Responsibility: quali sono le differenze?
Il Brand Activism è visto come una “naturale evoluzione” della Corporate Social Responsibility (CSR), sostengono Kotler e Sarkan. Sostanzialmente nelle occasioni in cui le aziende concretizzano il loro impegno sociale in campagne contro l’utilizzo della plastica o per aiutare delle categorie in difficoltà sarebbe impossibile distinguere quali delle due strategie di marketing è stata adottata.
In questo senso si può usare anche l’espressione Corporate Diplomacy per riferirsi alla priorità che ha acquisito per le aziende prendere posizione su delle “questioni calde”.
In linea generale, un brand dovrebbe prendere posizioni affini a quelle che ritiene possano essere quelle del proprio target di riferimento. Questo vuol dire che il Brand Activism va ponderato anche sulla base della percezione che, con le nostre azioni, vogliamo dare ai nostri potenziali clienti. Una cosa è certa: le aziende e i brand non possono più permettersi di non schierarsi ed è vero anche che la propria scelta di campo debba essere il più oculata possibile.
Alcuni testi per approfondire questo argomento possono essere:
- “Brand activism: from purpose to action” di Christian Sarkar e Philip Kotler.
- “Corporate Diplomacy. Perché le imprese non possono più restare politicamente neutrali”: viene fornito un decalogo per l’attivismo di brand che tiene conto dell’importanza della brand identity e di quella che assume il rispettare storia e valori aziendali e, ancora, del peso sempre maggiore che ha l’internazionalizzazione o di come sia irrinunciabile la componente di programmazione strategica.
- “Storie che incantano. Il lato narrativo dei brand”, di Andrea Fontana: è un libro su come i racconti di marca, prodotto, vita possono diventare distintivi. Su come la risonanza che siamo in grado di creare con gli altri attraverso i racconti può fare la differenza. Saper raccontare storie così oggi non è soltanto un vezzo stilistico, ma fa parte delle competenze indispensabili che deve possedere chi desidera ascoltare e farsi ascoltare.
Tipologie di Brand activism: regressivo o progressivo
Una precisazione importante è da fare: il Brand Activism deve essere progressivo, non regressivo.
L’attivismo regressivo si verifica quando le aziende vantano benefici illusori sui beni o servizi che offrono.
Il più chiaro esempio di attivismo regressivo sono le compagnie del tabacco che per così tanti anni hanno negato il danno che i loro prodotti hanno fatto ai consumatori, anche quando le loro stesse ricerche hanno rivelato il contrario. Hanno promosso le “virtù” del fumo in un modo che effettivamente danneggia i consumatori.
Sono definite regressive anche le aziende che si occupano della produzione di combustibili fossili e petrolio o le compagnie farmaceutiche quando inseguono solo il profitto e non il bene comune.
Dal lato dell’attivismo progressista, invece, vediamo sempre più aziende che cercano di avere un impatto positivo sui maggiori problemi della società. Queste aziende hanno uno scopo più ampio della semplice ricerca del profitto e sono sempre più viste come leader nei loro settori.
È quindi opportuno che i brand assumano una posizione chiara e trasparente riguardo a temi sociali e che riguardano il pianeta. In questo modo i consumatori possono sapere qual è la posizione che l’azienda assume e scegliere di conseguenza se supportarla o meno.
Philip Kotler e Christian Sarkar identificano sei aree di Brand Activism progressista:
- L’attivismo sociale comprende aree come l’uguaglianza – di genere, LGBT, etnia, età, ecc. – Include anche questioni sociali e comunitarie come ad esempio l’istruzione.
- L’attivismo legale si occupa delle leggi e delle politiche che incidono sulle aziende, come le tasse, il posto di lavoro e le leggi sull’occupazione.
- L’attivismo aziendale riguarda la governance: organizzazione aziendale, retribuzione degli amministratori delegati, retribuzione dei lavoratori, relazioni sindacali ecc.
- L’attivismo economico può includere politiche salariali minime e fiscali che incidono sulla disparità di reddito e sulla ridistribuzione della ricchezza.
- L’attivismo politico riguarda lobbismo, voto, diritto di voto e politica.L’attivismo ambientale si occupa di leggi e politiche in materia di tutela dell’ambiente, uso del suolo, inquinamento dell’aria e dell’acqua.
Esempi concreti di brand activism
Possiamo definire una marca “attivista” quando si schiera e quindi prende posizione riguardo a un problema di varia natura.
Esempi contemporanei di brand activism si sono verificati all’inizio dell’estate 2020 in seguito all’omicidio di George Floyd. Con il movimento Black Lives Matter e le proteste sempre più persistenti contro il razzismo sistemico, finalmente anche brand di peso si sono schierati pubblicamente contro il razzismo.
Le campagne di Brand Activism sono anche mirate a progetti per migliorare la condizione di vita di categorie protette; Granarolo, per esempio, si impegna a raccogliere latte materno per neonati prematuri. “Allattami” è il nome del progetto pubblico-privato, senza scopo di lucro, promosso da Granarolo, la più grande filiera italiana del latte, che insieme al Policlinico S. Orsola di Bologna che ha raccolto 30.364 biberon e 264 donatrici. Oggi le terapie intensive neonatali rifornite da Granarolo sono a Bologna, Ferrara e Parma.
Dorelan, eccellenza italiana nel bedding, ha promosso “I’m a Dreamer” per ridurre l’impatto ambientale dei loro prodotti. Si tratta di un progetto sociale che ha dato una seconda vita a materiali di scarto: sono stati recuperati 1746 kg di tessuti provenienti da residui di produzione per una collezione di sei prodotti e un’opportunità a persone svantaggiate. Il progetto è stato realizzato con l’Istituto Tecnico Saffi-Alberti di Forlì e l’impresa sociale CavaRei.
L’attivismo di marca, infatti, si vede spesso anche per la lotta ambientale.
Patagonia, il brand più attivista di tutti. La missione dell’azienda consiste nell’utilizzare le risorse del business per implementare soluzioni che possano risolvere la crisi climatica. Il marchio, infatti, sovvenziona associazioni impegnate nella lotta al cambiamento climatico a livello globale. Per rendere ancora più chiara la sua posizione, Patagonia ha aggiunto sul sito una voce denominata “attivismo”.
Gli effetti del Brand Activism sulla nuova generazione
La strada maestra che emerge dal rapporto “Consumer products and Retail” di Capgemini Research Institute è quella della responsabilità sociale.
L’indagine ha coinvolto 7500 consumatori e 750 dirigenti d’azienda nel mondo ed evidenzia una forte correlazione tra sostenibilità e business. Oggi il 79% dei clienti ha modificato le preferenze di acquisto in base a criteri di responsabilità sociale, inclusività e impatto ambientale.
Il 53% dei consumatori (ma il dato arriva al 57% per la generazione Z) hanno iniziato ad acquistare prodotti di marchi meno conosciuti, ma più sostenibili.
Le aziende percepiscono la pluralità di servizi richiesti dalla comunità locali, che esige una risposta interconnessa, ampia, universale. Il futuro delle azioni e delle relative narrazioni rilancia sempre di più un nuovo modello plurale del fare business.
Il Brand Activism in Neting
Il modello del Brand Activism può essere visto come modello win-win, perché sia il brand che la società ne traggono vantaggio. Per il Brand si tratta di vantaggio competitivo e al contempo crea valore nella società stessa.
Molti brand però non sono ancora riusciti a fare il passaggio da marketing del prodotto a marketing del valore; in Neting abbiamo intrapreso questa svolta lanciando un messaggio (di certo originale) nel periodo Natalizio del 2020, in piena pandemia: un invito a comprare dai negozi cittadini e di non buttarsi nella regalistica on line dei grandi marketplace internazionali.
Parrebbe quasi una contraddizione che una realtà specializzata proprio nella realizzazione di siti web si impegni per far comprendere che il web non è un concorrente per le piccole attività che spesso vedono nei grandi marketplace dei concorrenti “sleali”.
Di fatto il web e il digital sono una grande opportunità per tutti, piccoli e grandi. Occorre sviluppare una mentalità all’innovazione nei commercianti e una sinergia tra operatori e sviluppatori per essere al passo coi tempi e contrastare il rischio di essere penalizzati proprio dalle vendite online altrui.
“Abbiamo voluto lanciare un segnale positivo – conclude Luca Mainieri, CEO di Neting – spontaneo e autofinanziato, per aiutare il tessuto produttivo locale e sostenere le vendite natalizie. Il digitale è una risorsa, ma può funzionare solo se sussiste una rete sana e dinamica che per sopravvivere ha bisogno in questo difficile momento del sostegno di tutti”.